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APRILE

IL VENTO DELL'EST

PRIMA DELLA PIOGGIA
TINI ZABUTYKH PREDKIV
POKAYANIYE
MOLBA
LURDZHA MAGDANY
DREVO ZHELANIA
VENERDI 2 APRILE


Pred doždot
(prima della pioggia)
 (macedone –albanese-inglese  subtitle italiano)
Di Milcho Manchevski


 
Anno: 1994 Nazione: Macedonia/Francia/Gran Bretagna Produzione: Mikado Durata: 115'
Regia: Milcho Manchevski Cast: Phyllida Law Labina Mitevska
Rade Serbedzijia Grègoire Colin Katrin Cartlidge Josif Josifovski
Note: Leone d'oro a Venezia 1994, ex aequo con Vive l'amour di Ts'ai Ming-Liang
(Taiwan).

 


   Diviso in tre parti, il film tratta dei sentimenti durante la guerra civile in Macedonia. Un monaco macedone spezza il suo voto per aiutare una ragazzina albanese a nascondersi perché accusata di omicidio. Una donna inglese non sa chi scegliere tra il proprio marito ed il proprio amante, un fotografo di guerra vincitore del premio Pulitzer, che sta per ritornare alla sua natìa Macedonia. Nell'ultimo episodio il fotografo cerca di capire la violenza che ha trasformato la sua terra rendendo nemici i suoi amici di una volta.

   
"Prima della pioggia" è un film segnato dal sangue. Sangue inteso in doppio significato: come traccia della guerra, della violenza, dell'odio; anche però come segno, al tempo stesso carnale e spirituale, della fratellanza, di un irriducibile vicinanza.
   Manchevski ha dichiarato che per lui fare cinema non è fare arte, bensì trattare il mito. Nel mito è presente la memoria, da dove veniamo. Ricordo e memoria della morte, della sofferenza e di quella poca gioia. Il mito e tutta una serie di narrazioni, che unite (non in senso cronologico bensì seguendo la fratellanza, la vicinanza istintuale del racconto) fanno lacrimare la memoria, con lacrime di sangue. Perchè il mito è impregnato dal sangue: il sangue delle origini, della tradizione, del rito. Rito in cui si trova la memoria di un popolo, in questo caso il macedone, lacerato dal dolore.
   La storia narrata dal cineasta è senza età, eterna: ferisce direttamente l'istinto; è anche però profondamente e visceralmente macedone e radicata negli anni, crudeli e amari, nei quali si svolge. Nel cerchio della vita e della morte della pellicola l'inizio è la fine e la fine è l'inizio, un eterno ritorno di strage e dolore. E quando tutto sarà finito, forse, resterà la memoria. Il regista è affascinato dal mito anche nel senso più avventuroso e romanzesco (ma non per questo meno nobile) del termine è profondamente influenzato dal cinema western;
infatti nell'opera ci sono citazioni da "Il mucchio selvaggio" di Sam Peckinpah e da "Butch Cassidy" di George Roy Hill. Del primo, oltre alla sparatoria letteralmente esplosiva del capitolo "Volti", prende una tortura di un animale: qui una tartaruga che agonizza nel cerchio (ancora...) della sofferenza e della memoria, lì degli scorpioni che mentre facevano strage di formiche vengono bruciati vivi da bambini sadici, divenuti dei pazzi e crudeli. La seconda, forse più gratuita, è la canzone fischiata in bicicletta dal protagonista che è la stessa sentita durante il corteggiamento, consapevolmente inutile di Paul Newman a Katharine Ross: in entambi i film è un momento sereno a cui però seguirà un epilogo tragico. Sembra che, basandoci anche su ciò che sappiamo di "Dust", Manchevski abbia voluto creare nel suo paese natale una frontiera, un eastern. Non è un caso poi che entrambi i su citati western non siano delle celebrazioni della frontiera, ma rigurdino la sua fine, la sua scomparsa. In Peckinpah un epico urlo di odio contro tutto e tutti, in Hill una malinconica elegia. E questa frontiera a noi così vicina geograficamente e così lontana mentalmente, è ritratta sotto un segno barbarico e rituale. Viene alla mente il noir francese "I senza nome" di Jean Pierre Melville che in originale si chiamava "Le cercle rouge" (Il cerchio rosso): anche lì le vite sono unite in un cerchio di sangue e violenza voluto dal desino. Questo perchè, sembrano dirci quasi in coro due cineasti così irriducibilmente diversi come Manchevski e Melville, il destino dell'uomo è impregnato dal sangue, inteso sia come simbolo di vita che come simbolo di morte.



Regista:
Milcho Manchevski nasce a Skopje in Macedonia nel 1959. S'iscrive alla
Facoltà di Storia dell'arte e Archeologia dell'Università della città
natale, dove vi rimane per due anni, il '78 e il '79. Nel 1982 si laurea
invece al Department of Cinema and Photography dell'Università dell'Illinois
meridionale. Nel corso degli anni '80 gira alcuni cortometraggi e anche
qualche video musicale.


Recensioni:

Il macedone Before the Rain, il cui titolo (Prima della pioggia) ben rende
un senso ancestale di incombenza, subito si segnala per l'originale
struttura narrativa diviso com'è in tre episodi che sovvertono la scansione
temporale, spiazzando lo spettatore per poi coinvolgerlo maggiormente in un
monito accorato contro l'assurdità della guerra. La storia è quella di
Aleksandar, un famoso fotografo che torna nella sua patria, la Macedonia,
dopo tanti anni di reportage in giro per il mondo. L'incombere della guerra
non gli fa paura, tanta è la gioia di ritrovare amici e parenti, tanta è la
fiducia in un futuro che rifiuti l'insania della violenza. Dovrà invece
scontrarvisi brutalmente: una ragazza albanese uccide un pastore macedone ed
Aleksandar, che prova a difenderla dall'inesorabile vendetta, viene
coinvolto nella follia sanguinaria dei suoi compatrioti. La ragazza riesce a
fuggire e si rifugia in un monastero, aiutata da un giovane monaco macedone,
ma anche per loro la morte è un crudo appuntamento del destino.
E' impossibile rendere in poche parole la complessità dell'architettura
narrativa del film di Milcho Manchevski (guarda caso macedone d'origine,
trapiantato negli USA, regista di videoclip di successo), basta pensare che
nel primo "capitolo" viene narrato l'epilogo, , nel secondo una parentesi a
Londra in cui Aleksandar, prima di partire, si accomiata dalla donna che
ama, nell'ultimo il ritorno del protagonista in Macedonia. Ma, tanto per
ingarbugliare le carte, Aleksandar risulta imparentato con il giovane
monaco, la cui fine cruenta è già preannunciata, con un'incongruenza
temporale, nell'episodio londinese... In questo puzzle di esistenze lacerate
ciò che colpisce è l'intensità emotiva con cui lo spettatore viene
coinvolto, attonito di fronte alla brutale ineluttabilità di una violenza i
cui confini territoriali, non solo metaforicamente, sono sempre meno lontani
dal nostro quieto vivere. - Ezio Leoni (La difesa del popolo) -
'Il cerchio non è rotondo' è una frase tratta da Before the rain-Prima della
pioggia del regista macedone Milcho Manchevski, Leone d'oro '94 a Venezia.
Il film si struttura in tre episodi, due dei quali ambientati in Macedonia e
quello centrale a Londra. Il primo si articola nello spazio di un monastero
del XII sec. in cui si rifugia una ragazza (Zamira), probabilmente
un'assassina; un giovane monaco votato al silenzio la aiuta a sfuggire alla
vendetta, e se ne innamora: fuggono romanticamente all'alba (un nuovo
Inizio), ma Lei sarà uccisa dai suoi stessi parenti. Londra: l'amore e le
incertezze tra una photoeditor, in piena crisi matrimoniale, e un
fotoreporter di origine macedone, Rade, appena rientrato dai territori
dell'ex-jugoslavia straziati dalla guerra. Lui le consegna (o le ha
consegnato ancora prima... quando?) le foto del cadavere di Zamira. Rade
ritorna in Macedonia. La sua compagna non si sente ancora di seguirlo. Di
nuovo in Macedonia: Rade torna nel suo paese dove il Tempo sembra essersi
fermato... ma non è così. Le tensioni etniche stanno per sfociare nella
guerra civile (ma non era già iniziata?), e nel minuscolo villaggio di poche
case di Rade e della sua famiglia tutti sono armati - in lotta con il
paesino sulla collina. Rade si ritrova cosÏ coinvolto nella vicenda di
Zamira. Lei è ancora viva, e, accusata di omicidio dai parenti di Rade, deve
sfuggirne la vendetta. Rade la aiuterà a scappare sui monti, verso quel
monastero del primo episodio: verso la morte che noi già conosciamo
(preconoscenza, antiveggenza, visione anticipata). Ma quando Rade è a
Londra, cioè Prima di tutto ciò, non consegna le foto del cadavere di Zamira
uccisa dai suoi stessi parenti? E sempre nel segmento narrativo londinese,
la guerra civile non era già esplosa? Il viaggio Londra-Macedonia che Rade
intraprende è dunque un viaggio indietro nel tempo. Ma: Il cerchio non è
rotondo, il Tempo non si ferma - non muore. (E notiamo, inoltre, che Rade è
un fotografo, ovvero qualcuno che dell'immortalare gli attimi - fermare il
Tempo con un semplice click - ha fatto la sua professione.) Si ha
l'impressione di essere di fronte a due mondi paralleli... e le parallele
non si incontrano mai, per definizione. Questa regola viene infranta. Un
cerchio rotondo presuppone una sosta (una morte, l'immobilità) del punto di
partenza da cui iniziamo a tracciare la linea circolare. Se non fosse cosÏ,
non riusciremmo mai a venirne a capo: ci ritroveremmo ad inseguire
costantemente quel punto. Il cerchio non si chiuderebbe. Ed in Before the
rain non si chiude. Un cerchio non rotondo è una figura imperfetta. Un
cerchio imperfetto non è un Cerchio. In Before the rain i conti non tornano
volontariamente: è una scelta narrativa. Il cerchio-non-rotondo è una
metafora dell'ineluttabilità della Storia, dell'impossibilità di mutare il
corso degli eventi, dell'assurdità della violenza. Quando lo spettatore si
rende conto che la sequenza cronologica degli eventi è stata infranta, si
illude che Rade possa cambiare il destino di Zamira in una sorta di
ritorno-al-futuro: ma non è cosÏ. Il Finale coincide con l'Inizio. Nulla è
cambiato, Tutto è cambiato: il Tempo non Muore, la Vita sÏ.
Ricordate il disagio che si prova nel finale di Ritorno al futuro? Michael
J. Fox che si ritrova a... diciotto anni? (ma quanti anni ha l'eterno
ragazzino Fox? tempo/età inafferrabile, non-databile, nella realtà e nella
finzione) si ritrova, dicevamo, ad affrontare una nuova vita mai vissuta:
diventa un uomo senza passato. Ma è stata una sua scelta: subisce le
conseguenze di aver fermato, domato, plasmato il Tempo, di aver mutato i
destini delle persone. Il personaggio di M.J.Fox è la personificazione del
Tempo: un orologio umano, quasi una divinità. La sensazione di disagio che
si prova di fronte al cerchio-non-rotondo di Manchevski è l'esatto
contrario. Rade è totalmente impotente, e la sua dannazione è in quella
frase che ripete ossessivamente: Prendere posizione, cioè mettere dei punti
fermi. Il taglio documentaristico che spesso prende il sopravvento sulla
immagini poetiche (come possono essere quelle iniziali), rafforza
ulteriormente lo spaesamento di fronte ad una
realtà-realisticamente-irreale. E non solo gli eventi si susseguono in
maniera inafferrabile, lenta ma inarrestabile; la stessa struttura narrativa
che li contiene non è facilmente razionalizzabile dall'esterno (in
poltrona). La sequenza crono-logico-causale (naturale) di Pulp Fiction è
ricostruibile a tavolino: otteniamo un Cerchio Perfettamente Rotondo. In
Before the rain non c'è nulla da ricostruire: rimangono solo degli
interrogativi senza risposta. Come senza risposta nè motivo sono le
esplosioni improvvise di violenza iperrealistica che invadono lo schermo a
tratti: schegge di follia allo stato puro. E' lo Spirito Della Guerra,
l'Essenza Negativa dell'Uomo: un cielo nero ed agitato, indomabile, che
minaccia pioggia e tempesta. (Sempre.) - Cinemah.comneardark -

venerdi 9 aprile 21.30
TINI ZABUTYKH PREDKIV
(le ombre  dei nostri avi dimenticati)
(ucraino subtitle italiano)
Di  Sergej Paradzanov
'Con Tatiana Bestayeva, Larisa Kadochnikova, Ivan Mikolajchuk
 Ucraina 1964, durata 97 min.



 

Allievo di Gavcenko a Mosca, l'armeno Sergej Parazdanov fece ritorno nel 1951 a Kiev, dove diresse alcune opere minori prima di trasporre un racconto di Kocjbinkij: Tini Zabutykh Predkiv/ Le ombre degli avi dimenticate/ Shadows of Forgotten Ancestors (1964). Ambientato in una piccola comunità di montagna, si rifaceva a due filoni di moda: quello etnografico, studio dei costumi dei popoli periferici, e quello poetico, figurativamente molto curato, senso panico della natura, colori violenti e irreali, gran movimento di macchina.

L'ombra degli avi dimenticati PDF Stampa E-mail
Scritto da Toni D'Angela   

L'OMBRA DEGLI AVI DIMENTICATI

LA FORMA DEL DISSENSO

 

 

L'elemento primordiale, il solo decisivo, è la forma.

Non importa affatto modificare la realtà

se è per sostituirla con qualcosa che avrà la stessa forma.

Jean-François Lyotard

 

Sergej Paradžanov (1924-1990), cineasta nato a Tblisi (Georgia) da genitori armeni, e autore di Sayat Nova (Il colore del melograno), nel 1964 gira un film tratto da un racconto dello scrittore ucraino Kocjubinskij, di cui quell'anno si celebrava il centenario: Le ombre degli avi dimenticati (Teni zabytich predkov). Uscito nel 1965 e realizzato presso una comunità dei Carpazi (Gutzul), il film – il suo primo capolavoro – fu accolto molto male dalla critica ufficiale, e per un certo periodo di tempo fu anche ritirato dalla circolazione, per riapparire in alcuni festival internazionali. Sebbene il nuovo corso politico, seguito alla morte di Stalin, svelò presto il suo reale volto, con la sanguinosa soppressione della rivoluzione consiliare ungherese (1956), per acluni anni – soprattutto nelle Repubbliche sovietiche – di fatto, favorì l'accendersi di entusiasmi e il formarsi di spazi di autonomia, fra intelletuali e artisti. Il cinema del disgelo (Tarkovskij, Paradžanov, Ioseliani, Muratova), poetico e non didascalico – che trovò un suo primo culmine espressivo con L'infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo) di Andrej Tarkovskij, premiato nel 1962 al Festival di Venezia – rimpiazzava la causalità narrativa con le articolazioni poetiche1, e, soprattutto, per questa ragione formale, cioè per il suo utilizzo di una legge di composizione atipica, fu presto depennato dalle autorità sovietiche, in particolare durante il periodo dello “sviluppo armonico” di Breznev (che sostituisce Kruscev nel 1964).

Il film, in Occidente, procurò una certa notorietà al regista, disgraziatamente superata da quella che, malgré lui, negli anni Settanta, per molti e paradossalmente, anziché rivelare il suo cinema al mondo, lo adombrò a favore delle sue vicissitudini private: Serge Daney ha scritto che l'impegno occidentale per la “causa nobile” fece cadere nell'oblio l'evidenza che si trattava anche diun cineasta e di un grande artista. Paradžanov, infatti, fu arrestato una prima volta nel 1968 (con l'accusa di “nazionalismo ucraino”), perché, dopo il successo internazionale di Le ombre degli avi dimenticati in alcuni festival cinematografici, il regista usò la sua notorietà per protestare contro il trattamento riservato ai dissidenti. Dopo il rilascio, fu trasferito in Armenia, dove girò Sayat Nova (Il colore del melograno, 1969): ancora più insolentemente sperimentale del primo, fu presto censurato e, più tardi, ridistribuito in una versione più corta e riveduta. l'arresto da parte delle autorità sovietiche (1973), sulla base di accuse inverosimili (traffico di icone, incitazione al suicidio) che, di fatto, velavano i veri motivi del provvedimento: Paradžanov era uno scomodo artista (regista, pittore, poeta, musicista) ostile al regime – e un omosessuale. Nonostante la mobilitazione di molti comitati, che ne chiedevano la scarcerazione, fu liberato solo qualche anno più tardi. Paradžanov continuò la sua protesta, sia per difendere il suo cinema, che la libertà di espressione degli artisti sovietici, e nel 1974 fu di nuovo incarcerato, con le accuse di omosessualità, traffico di opere d'arte rubate e istigazione al suicidio, e condannato a diversi anni di lavori forzati. Nonostante la mobilitazione di molti comitati occidentali che ne chiedevano la scarcerazione, fu rilasciato solo alcuni anni più tardi, ma gli fu impedito sia di emigrare, che di girare film, almeno fino all'epoca della glasnost e della perestroika.

 

Rituali e danze, fuochi e canti, destinalmente e funzionalmente, proteggono la presenza oscillante, la soggettività esposta alla potenza del negativo: la caduta di un albero nel bosco, la morte della donna amata, il tradimento della moglie. Ma, questo film – denso di Ritornelli – non è, essenzialmente, un documento etnografico, anche se il regista ha pagato un prezzo durissimo, per aver messo in scena – disseppellito e liberato dall'oblio – le sopravvivenze di un altro mondo, relitti che sono testimonianza vivente e scandalosa di una realtà eccedente, non ancora strozzata dalla modernità capitalista o quinquiennalizzata, che, peraltro, il cineasta sovietico metterà ancora in scena sia in Sayat Nova che in Asik Karib (1989). L'aspetto più sovversivo, infatti, e non sorprende, non è tanto il che cosa (rituali e costumi folclorici) mostra il regista armeno, ma il come lo mostra. Eternamente in ritardo, perfino i burocrati (post)staliniani, sobbalzarono dinnanzi alle immagini dell'opera, che sprigionava una energia vertiginosa, un immaginario materiale (fatto di stoffe, tessuti, legni, elementi), un magma di invisioni che sbordano qualsiasi canone estetico autorizzato, guizzando immagini che sono come una sovrimpressione che, per forza e intensità, concatena Brakhage e Herzog.  

 

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I contenuti, sicuramente, erano già di per sé impertinenti: costumi, maschere, lamentazioni funebri, feste folckloriche; d'altronde, gli studi delle Repubbliche sovietiche, meno permeabili alla censura di Mosca e tendenzialmente animati da uno spirito nazionalista anti-russo, facilitavano la realizzazione di progetti che mantessero vive le tradizioni popolari e locali. Ma il repertorio folclorico delle tradizioni popolari e dei costumi etnici, così ricorrente nel suo cinema – e in quello di altri cineasti del “disgelo”: Pastoral' (Pastorale, 1977) di Ioseliani o Andrej Rublëv (Andrei Rubliov, 1969) di Tarkovskij – in Paradžanov, è, fondamentalmente, la miscela di un dissenso tutto soggettivo e lirico, che non assume le sembianze di una politica nazionalista, ma la forma poetica (e, quindi, politica) ostile a qualsiasi dispositivo coercitorio: le strette maglie del controllo burocratico o gli stessi rituali folclorici che rischiano di soffocare la libertà individuale. Ciò nonostante, ancora più irriverente e scandaloso, rivoluzionario, è il modo di apparizione di questi contenuti: salti narrativi, sperimentazione nell'uso del colore, mdp mobilissima, soggettive violente, inquadrature anomale, ralenti. Un vulcano di surrealismo che erompe dai ghiacci dei Carpazi, già dalle prime immagini del film. Il duello di volti nella chiesa, fra il povero orgoglioso e il ricco vizioso (questo, in particolare, rinva al primo piano del subdolo popedi un film di Ejzenstejn), chiuso da un disquarto di carni che imbratta di rosso sangue la macchina da presa che, poco prima (nell'incipit), si era abbattuta, nel bosco, sul corpo del taglialegna.La comunità di Paradžanov, da subito (oserei dire, per programma), non è mai un Idillio che tutela, la terra-madre che accoglie nel suo fertile grembo e protegge. La valle verde è inondata dal sangue, divaricata da una scissura, attrversata da una mdp che danza, e che con il suo movimento, lirico, frenetico e convulso, compone un poema sinfonico, drammatico, soggettivo, battendo il tempo, diventando la mdp stessa, al di là della mimesi, il Ritmo diegetico del racconto: il lirico rivelarsi di un'individualità che dice il suo nome: Sergej Paradžanov.  

 

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 Le ombre degli avi dimenticati è un film coloratissimo, in anticipo sui colori di fine Sessanta di un Godard o di un Carmelo Bene. I colori, accesi e fiammeggianti, alterano l'immagine in-cantata della valle; l'Eden è, provocatoriamente, di volta in volta, curvato sull'abisso disperante del conflitto. I ritornelli tradizionali e le feste, armonizzano l'abitare degli uomini; e la lentezza delle materie (l'Incanto della Natura) di cui parlava Serge Daney, potenzialmente, istituisce la incorniciatura dialettica che sana le divisioni, come in un poema-natura di Dovženko, che riconcilia l'uomo con l'uomo, attraverso l'abbraccio fra l'uomo e la natura. Ma, Paradžanov, si ispira a Dovženko per dirottarlo dall'interno; il suo canto di amore e morte, non celebra l'accordo fra la lentezza delle materie e la velocità della politica rivoluzionaria, né il legame carnale fra l'uomo, nella sua invincibile e disperata individualità, e la collettività, che, con il suo magismo istituzionale, destorifica il divenire e gli urti, per assicurare a ciascuno la presenza protetta nel grembo della comunità, offrendo anche a Ivan, un orizzonte per la sua crisi e – dopo la tragica morte dell'amata Marichka – una moglie, anzi, gliela inchiodano, con un oggetto di legno rituale usato nei riti di fidanzamento dei Carpazi.

  

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Paradžanov, nel 1964, undici anni dopo la morte di Stalin, non crede più nella Dialettica che concilia l'uno e i molti. E lo urla, abbandonando alla deriva la presenza di Ivan, consegnandolo ad un effettivo perdersi, che rifiuta qualsiasi parvenza di vita solo lasciata vivere, lasciata vivere solo perché incantata-incantenata in inossidabili cordoni ombelicali, ormai, non più fertili. La donna, sintomatologicamente, non è più materna, non feconda figli. Ivan – in un'inquadratura-documento etnografico, che paragona la vanga al pene – solca la terra, ma la moglie adulterina, pur essendo (sia nelle immagini del film, che nel repertorio folclorico) assimilata al solco della terra, non genera figli e non porta frutti nella vita spezzata di Ivan.

 

Lo scandalo di Ivan, e del cineasta di origini armene, è proprio questa eccedenza, la sua preziosa sfacciataggine (Daney): Ivan non trova più posto nella comunità, dopo la morte di Marichka, annegata mentre lui era lontano, per la transumanza e perché non poteva ancora sposarla, a causa delle regole istituzionali vigenti nella comunità: le ombre tramandate degli avi. La sommossa che Paradžanov agita, con questi colori violenti e con questo movimento di macchina a vertigine, è la rivolta della singolarità, che smargina codici e ambienti codificati, quelli della comunità agricola e, pure, quelli ai quali questa comunità, metaforicamente, allude: il gulag della burocrazia sovietica. «La cosa più bella è quella piace», dice Saffo.

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Oggettivismo e soggettivismo. Il folclore, la comunità, la patria, l'eternità, l'universo, ma Ivan soffre, è avvitato in un solipsismo passionale, che nessuna oggettività toglie. Paradžanov, in questo, si distingue dalla dialettica di un Dovženko. Il vertiginismo della mdp, il turbine dinamico e psicotico, sono intensa testimonianza di un conflitto, di una insanabile lacerazione che ha diviso l'unità originaria e edenica.

 

Sforzo eroico e iper-romantico, ma, non per questo, semplice monumento immediatamente presente a se stesso, prodotto dal crociano principio dell'autonomia dell'arte, solipsisticamente avvitato in un atto puramente indiduale e assolutamente irrelato. Il gesto avanguardistico dell'artista, al contrario, sta nel sottrarsi al “quadro” irreale di una finzione ufficiale (la burocrazia sovietica) che fa tacere il dissenso e imbriglia le energie disordinate; in questo modo, il regista, recupera, nel testo poetico, la storicità, annoda la funzione poetica2(che non rivendica un'autonomia irrelata, ma la libertà di deviare) con la funzione conativa e polemica: il film è la forma del dissenso e la sua forma è già dissenso.

Secondo le sue proprie regole aggiuntive rispetto ai canoni ordinariamente invalsi, il film di Paradžanov, deviando dalla “grammatica” standard, lavora (in) uno spazio finalmente reale, cioè contrastato, contraddittorio e scisso, e, quindi, coinvolgente e avvolgente, a sua volta inviluppato nel delirio del personaggio (come ben mostra l'uso diegetico della mdp). Una spazio vissuto che, a rigore, implica lo svolgimento di una durata reale, di un tempo fessurato, divelto e sconnesso; svincolato dai lavori forzati della linearità pacificata da abbecedario del realismo socialista (il Canone del realismo socialista post-staliniano).

Documento esistenziale, grido, violento gesto di poesia estrema, messa in scena di avvolgimenti passionali e tracce di memoria, elementi (vento, acqua, nevo, erba, nebbia) e colori (giallo-mais, bianco-pecora, bianco-neve, bianco-latte, rosso-sangue) che fanno (un sensorio) massaggio più che messaggio didascalico (quello atteso dal Ministero), Le ombre degli avi dimenticati è un'opera materica. Ogni inquadatura di rocce e legni appare come un quadro informale, per non parlare della magia con cui il regista plasma oggetti d'uso quotidiano, vestiti, stoffe, per decostruirli e poeticizzarli, cioè isolarli dal loro contesto abitudinario e “naturale”, riscrivendoli, con uno stile, una forma, ancora una volta, estranea alla buone regole del Canone non solo del realismo socialista, ma anche del cinema etnografico e oggettivo. La colorazione pop e delirante del film, lo slontana da qualsiasi volontà realista, verista o positivista, per precipitarlo, a gorgo, come in un Fassbinder, nell'immediatezza della vita, nel mancare delle forze, nel pauroso venir meno dei sensi e dell'energia, sul bordo della morte – ma, fuori delle mediazioni collettiviste o burocratiche. L'Eden messo in scena, non è quello della comunità perduta, ma la genesi (in parte abortita) di una individualità, il sorgere di un sentimento individuale – in un contesto sociale, extra-diegetico, che ne impediva il manifestarsi.

 

Il tempo si smarrisce nell'eternità dell'universo, quando Ivan e Marichka, a distanza ma uniti, contemplano la stella luminosa nel cielo di tenebra, ma perché non posso sposare Marichka? Per quanto assoluto e dominante, l'Oggettivo non doma il Soggettivo, non addomestica la soggettività; non c'è ricucitura nello strappo fra la realtà e ciò che deve essere.

L'assillo amoroso di Ivan (in una delle scene più intense e poetiche) – la potenza amorosa che scioglie le membra, approssima all'inoperosità e alla fine – supera qualsiasi infinito, nella notte, dispiega rotoli di desiderio che annullano la separazione fra i due amanti – e fanno segno ad un altro celebre corpo a corpo a distanza: l'amplesso, nel montaggio parallelo e alternato, di L'Atalante di Jean Vigo. Non della casa vuota, che occorre riempire – cruccio delle anziane donne della famiglia di Ivan – ma del suo cuore svaligiato, soffre il giovane Ivan, imprigionato nella rete dei rituali, impotente e sospeso nel taglio che ha deflorato, una volta per sempre, l'innocenza sua e della verde valle: l'emergere drammatico della individualità, infatti, implica la formazione di nuovi legami fra gli uomini (fra la coscienza individuale e la polis).

 

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Ivan, nel suo amore infelice frana, giace sul letto, solo, vaneggiando la defunta Marichka, in un racconto che è, anzitutto (essenzialmente), il gesto del regista. Un dinamismo puro, in attesa di interrogare – più sul côté Dovženko o Tarkovskij – il movimento nella lentezza pesante del suo farsi materico e quasi geologico3 – sebbene questo film presenti delle notevoli composizioni statiche, è solo con Sayat Nova che queste diventano la marca stilistica dell'opera del regista. Ancora una volta, questa lentezza, questa staticità, è insolente, perché resistenza e rifiuto di una civiltà sempre più prigioniera della velocità (Ivan Illich), in America, certo, ma, dopo, anche in Russia: è il cinema della fortezza sovietica, come l'ha chiamato Daney, con una felice espressione che piaceva a Deleuze.

Le ombre degli avi dimenticati, infine, è anche un potlach, o, se si preferisce, un happening dove la vita soffia dove vuole e – facendosi beffe dello spettacolo della fruizione passiva – invita alla partecipazione. Il film di Paradžanov, è, soprattutto, il ritmo del suo sentimento. Lo diceva molto bene Serge Daney, a proposito del suo film più famoso, Il colore del melograno (che riprende e sviluppa lo schema narrativo, in quadri, di Le ombre degli avi dimentacati: infanzia, giovinezza, morte) «Tutti diranno: Sayat Nova è una giungla di simboli, è bello ma non è per noi, ci perdiamo. E allora? Quello che è interessante nel cinema non è ma il simbolo, ma la sua creazione, è il divenire-simbolo dell'oggetto più insignificante. Come si diventa simbolo quando si è succo di melograno o pollo senza testa, drappo macchiato o candela spenta? O vaso, stoffa, tappeto rosso, colore, bagno pubblico, montone o danza del ventre? E quanto tempo serve allo spettatore per godere di questo simbolo»4.

 

 

 

 

Toni D'Angela

 

 

 

1Cfr. Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano, Ubulibri, 1988.

2 Che è la specificità o l'artisticità del suo testo, che appare immediatamente come scarto non solo dalla funzione referenziale, ma anche dalla norma dei film accettati dai burocrati di quegli anni. Il dissenso è già nella forma.

3 Cfr. Serge Daney, Ciné-journal, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 1999, p. 76.

4Ivi, p. 75.



 

Il film e` ambientato nelle montagne boscose della Carpazia. Gran parte del film consiste di cerimoniali tradizionali della tribu` o di inquadrature solenni della natura. Per salvare un bambino, Ivan, un taglialegna muore schiacciato dall'albero che ha appena finito di tagliare. In chiesa un ricco viene insultato da un povero e fuori lo uccide con un'ascia. Durante il funerale Ivan, figlio del morto, corre a salutare la bambina Maricka, figlia del ricco. Quando crescono, si giurano eterno amore, ma le due famiglie si odiano. Ivan parte per andare a cercare lavoro, lasciando sola la madre. Si aggrega a dei pastori di pecore. Un giorno sogna che Maricka e` in pericolo di vita. E infatti Maricka e` morta davvero, annegata nel fiume. Ivan non si riprende dallo shock. Conduce un'esistenza solitaria, invecchia, imbruttisce. La madre muore e lui vende i suoi averi. Vive di carita`, di lavoretti. Tutto il villaggio ne parla. Alla fine pero` accetta di sposare una giovane avvenente. Rimesso a nuovo, si comporta da marito buono e laborioso, ma rifiuta di fare l'amore con la sposa. La donna ricorre persino ai sortilegi per farsi desiderare dal consorte, ma invano. Quando chiede aiuto al mago di paese, questi ne approfitta per fare lui l'amore con lei. La loro tresca diventa pubblica al punto che un giorno in una taverna Ivan non puo` piu` fare finta di non vedere e deve sfidarlo a duello. Il mago lo colpisce con l'ascia e lui va a morire presso il fiume, rivedendo ancora una volta la sua Maricka. Mentre le vecchie lavano il cadavere, e la moglie segue svogliatamente il rituale, nella stanza di fianco si tiene una festa.

Il fatto saliente del film sono le inquadrature. Non solo i soggetti che vengono accostati dietro la cinepresa, ma le posizioni stesse. Un paio di volte la cinepresa e` sott'acqua e riprende Ivan che beve.

Parazdanov e il suo fotografo Vlienko si riallacciarono agli esperimenti futuristi, infiorettando il testo di interventi pittorici e montaggi al limite del sogno e dello straniamento (pellicola colorata secondo lo stato d'animo del protagonista).

Sayat Nova/ Color Of Pomegranate(1970) girato in Armenia è l'eresia narrativa più rigorosa del regista; la storia di un trovatore del Settecento, è il pretesto per stravolgere il rapporto organico che lega il cinema alla storia nazionale: la sintesi di secoli di umiliazioni collettive emerge dalla carica simbolica attribuita all'iconografia popolare e, data la dissoluzione della trama in un grandioso poema nazionale, l'effetto proviene dall'accumulo delle scene. L'esuberanza etnografica del film precedente cede il posto a un immobilismo innaturale, a una staticità ipnotica, a un ritmo largo che accentua la portata simbolica degli eventi. A differenza del misticismo di maniera di Tarkovky, Paradzanov critica, attraverso la figura del suo prete solitario (interpretato da tre attori, due uomini e una donna), i riti e le strutture clericali.

Omaggio a un poeta medievale armeno. Il film rivive la sua vita, ma non in maniera biografica, bensi` attraverso una sequenza di quadri, ciascuno dedicato a un periodo o avvenimento particolare. In una delle prime scene, per esempio, e` bambino nel cortile del monastero, circondato da monaci che ammucchiano tomi antichi in pile parallele. Si arrampica sui tetti, dove sono distesi aperti altri libri, sfogliati dal vento. Il resto del film e` un susseguirsi di scene di questo genere, alternate a "nature morte" e a ritratti di famiglia. E` come muoversi in una galleria di dipinti o di foto d'epoca. Molte delle scene si ispirano ai film surrealisti: forti contrasti dei soggetti inquadrati, colori sfarzosi, spazi vuoti, geometrie snervanti, movimenti nevrotici.

L'acceso sperimentalismo delle sue opere mise in cattiva luce Paradzanov, che si vide bocciare diversi progetti e che nel 1971 fu costretto a interrompere le riprese del nuovo film. Accusato di rapporti omossessuali, nel 1974 fu internato in un campo di lavoro. Anche dopo la scarcerazione, concessa nel 1977 su pressione di intellettuali di tutto il mondo, Paradzanov non ebbe più modo di dirigere.

Suram (1987), dopo quindici anni di silenzio, arrestato per omossessualità e contrabbando d'arte, si ispira a leggende popolari georgiane che narrano l'epopea della fortezza di Suram, che può essere salvata soltanto se un giovane si farà murare vivo nei bastioni.

venerdi 16 aprile 21.30
Pokayaniye
(pentimento)
(georgiano subtitle italiano)
Di Tenghiz Abuladze
Georgia 1986.
durata 145 min. -


Il cadavere di Varlam Aravidze – borgomastro di una grossa città georgiana che ha appena avuto funerali solenni – è disseppellito tre volte. L'autrice del macabro misfatto è una donna la cui famiglia è stata vittima delle sue angherie. Al processo si ricostruisce la storia di Varlam, un despota: ha baffetti alla Hitler, i gesti e il balcone di Mussolini, gli occhialetti di Beria, l'ardore di Somoza, la cordialità minacciosa di Stalin. L'azione si svolge in un'epoca indeterminata e in un Paese innominato dove tutto, però, è georgiano. Per rievocare gli anni di piombo dello stalinismo T. Abuladze pratica la mescolanza dei generi con un omaggio a Chaplin e rimandi a Buñuel. È un grottesco poema satirico che osa paragonare la dittatura staliniana a quella hitleriana con un accostamento che a molta parte della sinistra occidentale ripugnava allora e negli anni '90 ripugna ancora (un po' meno). Ideato alla fine dell'epoca di Breznev, realizzato nel 1984 sotto Andropov e Cernenko, uscì soltanto alla fine del 1986 sotto Gorbaciov: 12 milioni di spettatori nell'URSS, premio speciale della giuria di Cannes, notorietà internazionale per il georgiano Abuladze (1924-94) di cui fu purtroppo l'ultimo film. In quegli anni “Varlam” divenne in Russia sinonimo di tiranno. Memorabile, nel registro drammatico, la sequenza del deposito dei tronchi arrivati dalla Siberia sui quali si cercano i nomi dei deportati nei campi di lavoro. Come epigrafe gli si addice un'amara frase di S.M. Ejzenštejn: “Nella vita la giustizia trionfa sempre, ma spesso la vita è troppo corta”. In russo pokayaniye significa, oltre che pentimento, espiazione o purificazione.

Pokajanie del georgiano Tengiz Abuladze, il film della nuova linea sovietica, il film della «trasparenza» gorbacioviana, il poema antistalinista che sarebbe stato proibito fino a poco tempo fa (e infatti ha atteso due anni in frigorifero). Non bisogna caricare Abuladze di troppe responsabilità, è significativo che la Sovexport nel materiale pubblicitario abbia dapprima tradotto il titolo con Penitenza e ora sia passata all'ufficiale Pentimento, ma è un fatto che per la prima volta in Urss la dittatura staliniana viene paragonata a quella nazista, secondo un accostamento che in Europa una parte della sinistra non si permette ancora e che anzi considera francamente con ripugnanza. Certo, tutto avviene sotto il velo della metafora e della deformazione surrealista (che garantisce, del resto, la qualità del film), eppure l'indignazione che il regista vuol trasmettere ai giovani spettatori è assolutamente esplicita e non è mai stato così evidente in un film russo il meccanismo che porta, dietro il pretesto o la convinzione del bene politico, alla distruzione di qualunque presunto avversario, alla «purga» sugli stessi compagni, in una parola alla strage indiscriminata. Lo Stalin di Pentimento si chiama Varlam Aravidze ed è il sindaco-dittatore di un'immaginaria città georgiana. Anzi, era. Perché narrativamente e ideologicamente la dittatura si mostra in'fläs-h back, in ricordo, la penitenza è già stata scontata. Accusata di aver profanato la sepoltura di Varlam, la figlia'di un pittore scomparso nel gulag racconta al tribunale le imprese del defunto poco illustre. Varlam era un georgiano scaltro e crudele (come Stalin), aveva gli occhiali alla Beria a coprire uno sguardo dolce e terribile, aveva anche i baffetti alla Hitler e, ad ogni buon conto, la camicia nera di Mussolini. Varlam parlava dal balcone, torrentizio e minaccioso, solo il pittore Barateli non correva ad applaudirlo. Dapprima Varlam cerca di farsi servo l'artista, poi passa alle maniere spicce, anche lui quando sente la parola cultura mette mano alla pistola (anzi, peggio, pensa di essere lui la cultura). Il pittore è deportato senza lascia

venerdi 23 aprile 21.00
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