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MARZO

This Is England
                           RASSEGNA DI CINEMA britannico
venerdì 4 marzo 21.30
hunger
 (inglese- subtitle italiano)

Un film di Steve McQueen. Con Helena Bereen, Larry Cowan, Liam Cunningham, Michael Fassbender, Stuart Graham.
durata 90 min. - Gran Bretagna 2008.,
 
 
Abbiamo passato anni a chiederci cosa mai avesse fatto Margareth Thatcher per essere definita, con ammirazione, lady di ferro, dopo aver messo in ginocchio gli inglesi. Poi andiamo in sala e ci ricordiamo che è grazie a lei e all'odio sociale che ha suscitato se, da Loach a Frears, la cinematografia inglese ha regalato piccole e grandi perle negli ultimi decenni. Lo conferma Hunger , il primo film di Steve McQueen (solo omonimo del divo) che inaugura il Certain regard e già si candida per la Camera d'Or. Regia matura e mai enfatica per raccontare l'eroe più amato e citato dell'irridentismo nordirlandese, Bobby Sands da Belfast. L'odissea di repressione che subì il terrorismo politico di Ira e dintorni (vedi l'Uda) viene qui raccontata nel suo simbolo. Positivo per i ribelli, che vedono in lui un giovane eroe il cui viso solare e fiducioso compare in graffiti e t-shirt, negativo per gli oppressori, perché la sua morte fu la sconfitta più ignobile subita. Bobby, infatti, nel 1981 si lasciò morire, con la forza sovraumana che solo gli ideali possono darti, di fame, uno sciopero clamoroso che durò 66 giorni e venne dopo 4 anni di sciopero dell'igiene di tutti i detenuti nordirlandesi e "contestatori". Volevano essere riconosciuti come soggetto politico e veder rispettate le loro richieste, incentrate principalmente sui diritti umani. Fu l'apice dello scontro che già aveva prodotto quasi 2.800 morti, fu l'inizio di un lento ma inesorabile declino dell'impero e dell'imperialismo britannico. Bobby, agonizzante, fu eletto in parlamento, altri 9 seguirono il suo esempio, morendo in meno di un anno. La disumana Margaret Thatcher - geniale l'idea di dividere il film in tre parti, con la sua voce fastidiosa e arrogante a far da spartiacque - dovette cominciare a trattare.
McQueen all'esordio ha affrontato una montagna, e l'ha scalata con pazienza e senza scorciatoie. Con un'ottica triplice (il carceriere, due prigionieri, l'eroe suicida) ci pone di fronte all'orrore di una guerra civile in cui lo Stato è nemico feroce e sleale. Siamo a Maze, la prigione dedicata all'Ira, e chi ha la divisa non ha alcuna pietà di ragazzi che hanno il solo torto di aver creduto (troppo?) a un mondo migliore. Perquisizioni rettali, pestaggi, umiliazioni non li fiaccano, si ribellano, conservando anche una perfida ironia. Se ogni tanto si cade nell'affettuosa agiografia, è anche vero che il film non (ci) risparmia nulla. Nella seconda parte rallenta come il metabolismo di Sands e ci impone la sua dolorosa e macabra agonia così come un dialogo di una ventina di minuti a camera fissa in cui Bobby (Michael Fassbender, bravo e coraggioso nel mettere alla prova il suo fisico in modo così estremo) spiega al suo prete di strada (e a noi) i motivi del gesto politico che sta per compiere.
McQueen si discosta dallo stile di Nel nome del padre , Michael Collins , Il silenzio dell'allodola . Non cede alla tentazione di regalarci un santino, sapendo mostrare la meschinità umana, da qualsiasi parte arrivi.
venerdì 11 marzo 21.30
Dead Man's Shoes
(inglese- subtitle italiano)
Un film di Shane Meadows. Con Paddy Considine, Gary Stretch, Jo Hartley, Toby Kebbell Titolo originale Dead Man's Shoes. Drammatico, durata 90 min. - Gran Bretagna 2004.
 
Ho viaggiato tra molti popoli e su molti mari
e giungo qui, fratello, per donarti queste misere cose
in offerta come ultimo dono di morte
e per parlare invano alla muta cenere,
poiché la sorte mi ha strappato proprio te,
oh povero fratello toltomi ingiustamente,
ora tuttavia ricevi queste offerte, come triste dono
portate secondo il culto degli antenati,
grondanti di molto pianto fraterno,
e per sempre, fratello, addio.
(Carme 101-Catullo)
 
Presentato alla 61a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, "Dead Man's Shoes" è uno di quei film che, seppur acclamato da critica e pubblico durante il festival, non ha avuto alcuna distribuzione a livello nazionale, mentre in Gran Bretagna è divenuto un vero e proprio cult, consacrando definitivamente il regista inglese Shane Meadows.
 
"Dead Man's Shoes" è l'ultimo film della trilogia riguardante le Midlands (regione centrale della Gran Bretagna corrispondente al Regno di Mercia durante il periodo medioevale), ed è preceduto da "A Room for Romeo Brass", film d'esordio dello stupefacente Paddy Considine, e dall'anonimo "Once Upon a Time in the Midlands".
Ambientato nella piccola cittadina di Matlock, "Dead Man's Shoes" racconta il ritorno, dopo otto anni, di Richard (Paddy Considine) ed Anthony (Tony Kebbell) nella propria città natale. Qui Richard, ex militare, inizia la propria sanguinosa vendetta contro tutti coloro che durante la sua assenza torturarono e seviziarono il piccolo Anthony, reo di essere soggetto ad un lieve ritardo mentale.
 
Il film di Meadows è un vero pugno nello stomaco.
Il regista inglese riesce a toccare le corde della sensibilità dello spettatore non in modo lieve e delicato, ma con la foga e la violenza che contraddistinguono questa pellicola: una vendetta servita fredda, lenta, un conto alla rovescia che porta ciascuno degli aguzzini a rivivere le sevizie fatte sul povero Anthony prima di perire per mano di Richard.
Quest'ultimo è dominato da un odio viscerale, ma anche da un dolore che non gli dà pace; il rimorso per essersi vergognato di Anthony in passato, di averlo lasciato solo in balia delle "bestie" e soprattutto il non avergli mai dimostrato il suo amore fraterno, lo dilaniano. Non un attimo di sosta, non un momento di quiete. Il risentimento e l'odio trasformano Richard in un angelo vendicatore, una bestia ("Now, I'm the beast") senza scrupoli che non si ferma davanti a nulla; un peregrinare senza sosta alla ricerca di un momento, un solo istante di pace.
Quiete che Richard spera di trovare con lo sterminio dei torturatori.
Egli sfoga la propria rabbia cercando illusoriamente di liberarsi dal cancro del dolore che diviene in realtà sempre più grande, ogni qual volta aggiunge un tassello alla propria vendetta. Nulla. La sofferenza non cessa e da qui l'unica via di salvezza: la morte sul sito dove è andato in scena l'ultimo atto delle sofferenze del fratello, luogo simbolo del suo odio e del suo rimpianto, cuore delle proprie sofferenze che lo dilaniano, più del coltello che si insinua tra le proprie membra conducendolo all'insperata quiete.
 
Shane Meadows punta il dito contro l'indifferenza sociale verso eventi di tale portata prendendo d'esempio la squallida società delle periferie inglesi (che presenta non poche analogie con quella di Edimburgo analizzata da Boyle nel suo "Trainspotting") nella quale è ormai radicato il male del crimine e la piaga della droga. Tutto è lecito, tutto è permesso, perfino torturare un disabile. Nessuno interviene, ciascuno pensa a se stesso e al modo di salvaguardare i propri cari dalla violenza che dilaga lungo le strade. Il resto non ha importanza perché "siamo nel culo del mondo".
 
"Dead Man's Shoes" è l'esempio della bontà del cinema indipendente. Un budget irrisorio messo a disposizione da Mark Herbert della WarpFilm dopo aver visionato il talento di Shane Meadows in alcuni suoi corti; un'equipe di sole dodici persone si sono impegnate alacremente per otto settimane riducendo il più possibile i tempi di lavoro, diminuendo così il denaro necessario per finanziare l'opera. Ma a questa penuria di mezzi ha sopperito il talento e la voglia di sviluppare un prodotto di qualità.
La regia di Meadows è ottima, sempre al centro dell'azione e costantemente in grado di riprendere l'umanità evidente negli occhi di Richard/Considine. In grado di passare velocemente dalle quieti e commoventi inquadrature delle Midlands alla dura descrizione delle abominevoli azioni del "branco".
Le vicende riprese da Meadows sono supportate dalla straordinaria fotografia di Daniel Cohen (proveniente dalle scene pubblicitarie e musicali) che fa uno splendido lavoro. L'intensità cromatica delle verdi colline delle Midlands, stride con l'animo buio del protagonista continuamente immerso nel grigiore plumbeo del proprio animo e della propria sofferenza.
Paddy Considine esprime il proprio odio non con molte parole, ma con la sua straordinaria mimica. Basta uno sguardo, ben colto dal regista, per capire ciò che pensa, ciò che vorrebbe fare, ciò che prova.
Considine è senza dubbio la stella del cast, che nel complesso si comporta complessivamente bene nonostante il suo compito sia più arduo di quanto si possa pensare: il film è infatti basato su sole 60 pagine di sceneggiatura. Ciò ha portato il cast ad improvvisare in molte circostanze donando una nota di realismo alla pellicola.
Ottimo il montaggio, curato da Cris Wyatt ("Prospero's Book" di Greenaway) e Celia Haining ("The Full Monthy") in grado di arricchire la trama con una serie di flashback (in un bianco/nero sporco, trattanti le sevizie subite da Anthony), mantenendola comunque lineare e facilmente comprensibile.
Un film straordinario, che emoziona e coinvolg; un vero piccolissimo gioiello, dimenticato e sconosciuto per colpa delle durissime leggi del marketing, assolutamente da recuperare e riscoprire, sebbene sia molto difficile da reperire.
 
 
"Girando tutto il film in 16mm, con un processo di sviluppo e stampa diverso a seconda che si trattasse di sequenze ambientate nel presente o nel passato, Shane Meadows ha potuto utilizzare una fotografia estremamente realistica, sempre con luci naturali. In più, il trentaduenne britannico ha avuto l'intuizione di girare gli interni sempre con macchina fissa e gli esterni sempre con macchina a mano, cosa che dà alla pellicola una dimensione fotografica inedita per il suo cinema, di pari passo con un buon montaggio e un'ottimo lavoro sul sonoro (non solo per le belle musiche). L'alternanza delle due linee temporali è gestita benissimo perché il passato del protagonista e del branco delle Midlands ci viene svelato pian piano a seconda della necessità. E l'ultimo flashback, con quella musica ossessiva, riesce ad essere realmente sconvolgente."
 
venerdì 18 marzo 21.30
Fish Tank
(inglese- subtitle italiano)
Un film di Andrea Arnold. Con Katie Jarvis, Kierston Wareing, Michael Fassbender, Rebecca Griffiths, Harry Treadaway.
durata 123 min. - Gran Bretagna
 
film realistico, di grande attualità, che non per niente viene dall'Inghilterra e il cui autore è una donna. Con un governo laburista e una democrazia che nessuno mette in discussione, neppure là se la passano tanto bene. Squallidi palazzoni in mezzo a sterpaglie desolate nelle periferie cittadine, la televisione sempre accesa su sguaiataggini e lussi volgari, famigliole smembrate dove ognuno è solo e infelice per conto suo. Per i giovani, giornate incattivite dall'inquietudine e dalla paura, con il presentimento di un futuro incatenato al presente, immobile e vuoto. Appassionata di squallori urbani e di vite devastate, Andrea Arnold, una bella signora dai lunghi capelli biondi e con un baschetto nero in testa, porta in concorso il suo secondo lungometraggio, "Fish Tank", dopo aver vinto qui nel 2006 il premio della giuria con l'inquietante "Red Road". In quel film la vita perduta era quella di una donna che vuole vendicarsi dell'uomo che guidando ubriaco le ha ucciso marito e figlio, qui la vita desolata e rabbiosa è quella di una quindicenne che si dibatte nell'assenza di affetti, tra coetanei che la respingono, nessuna voglia di scuola, birra liquori e pasticche e il solo sogno che ragazze come lei pensano a portata di mano: diventare una ballerina di hip hop, come le adolescenti italiane sognano di diventare veline.
Mia, l'attrice esordiente Katie Jarvis, vive con la sorellina e la giovane madre avida di vita (Kierston Wareing, la bionda nervosa di "In questo mondo libero" di Loach), rapporti villani e duri: è un piccolo mondo di sole donne inquiete e infelici, fino a quando arriva il nuovo uomo della mamma, (Michael Fassbender) bello, gentile, paterno: basta una presenza maschile e tutto sembra possibile. Ma la vita è dura per le quindicenni abbandonate a se stesse, ferite dall'insicurezza e da un mondo che aspetta solo di distruggerle. Con grande talento, la regista ci porta nei luoghi dove la vita stessa è periferia, fa di Mia il ritratto di tante adolescenti irregolari e fastidiose, di cui, ovunque, gli adulti non vedono la sofferenza, il bisogno di affetto, la voglia di felicità e di normalità.
 
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