Senza dubbio in questo cortile si sogna un verbo che, gentilmente disturbato dal volo delle mosche, emanerebbe dalla situazione sulla quale è supposto posarsi, o che perlomeno è richiamato senza posa alla propria responsabilità effettiva (in una delle case che si affacciano sul cortile, agonizza un malato di AIDS, in un’altra si annoia il disoccupato Chaka). Sogno di una giustizia all’altezza del popolo, testa nel diritto e piedi incollati al suolo accidentato del cortile. E nell’altro senso ? In ritorno, le dispute giuridiche comunicano informazioni all’ambiente reale ? Sissako non può aver posto là i suoi cavalletti senza porsi delle domande sulla ricezione da parte dei cittadini che riempiono il quadrato di banchi, in piedi o in disparte. Lo dimostrano i ripetuti piani di ascolto (quattro giovani teste che si arrampicano su un muro per seguire il dibattito, cose di questo tipo), non di rado la camera si dà al vagabondaggio, lasciando off i dibattiti, per, passando attraverso i muri di cinta del cortile, inquadrare i busti di certi personaggi seduti all’esterno, non lontano da un altoparlante appeso al proprio filo. La questione dell’ascolto reale, e dunque dell’efficacia didattica del processo, punta allora sugli sguardi, dei quali è impossibile interpretare la fissità - indifferenza o concentrazione ? Come se niente fosse, Sissako ci riporta ad una pratica interrogante propria della più radicale modernità, facendo dipendere la speranza politica della possibilità di aggiustamento tra poli disgiunti del suono (il processo) e dell’immagine (i malesi nei dintorni). Ora, diversi di piani di ascolto mostrano il non-ascolto, le persone avendo certamente altro da fare che fissare i palabres [alberi delle parole, luoghi dove si riuniscono, in Africa centrale, i notabili e sapienti di un villaggio per risolvere le dispute ; n.d.tr]. In due, tre occasioni la cantante Mélé va al lavoro senza degnare di uno sguardo per la comunità giuridica che gli occupa il cortile. Generalmente infelice, la disgiunzione tra immagine e suono non può che risolversi in libertà. La sterilità della parola è anche ciò che fonda la sua autonomia e permette che essa si emancipi dal reale al quale si sforza di rendere giustizia. Parola all’aria aperta, parola libera come l’aria. Cavalcando questa giumenta imbizzarrita, il film è libero di convocare delle immagini illustrative, di trasportarsi per esempio attraverso il Sahara per accompagnare il cammino di un gruppo di malesi sulla strada per l’Europa - e destinati ad essere rimpatriati. Oppure può, quando gli pare opportuno, staccare e andare al bar dove Mélé lavora tutte le sere, e tendere l’orecchio a una canzone in extenso. Oppure anche incastrare nel bel mezzo del suo racconto una mini parodia western dove un cast di mercenari del cinema (Elia Suleiman, Jean-Henry Roger, Danny Glover) gioca al grilletto facile in un villaggio fantasma. La trovata provoca un sorriso benevolo, ma Bamako non aveva bisogno di circoscrivere un momento comico (incorniciato da un titolo di testa e da una fine) per manifestare la propria volontà di compensare con un po’ di leggerezza la pesantezza degli argomenti abbordati (cancellazione del debito, corruzione, dismissione dei servizi pubblici, impoverimento duraturo). A questo basta la mediazione costante della parola, che, evitando di abbassarsi a pietà, apprende il peggio con la delicatezza del pensiero, mostrando uno scarto con il proprio soggetto di cui la parodia non è che un’inutile ridondanza.
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Se la parola prodigata non crede ad un’efficacia a posteriori, quella stessa parola produce lì, nel tempo del processo, una neutralizzazione dell’aggressività del mondo, un annullamento provvisorio delle tragedie, una sospensione delle ostilità a vantaggio del pacifico agone dialettico. Per il fatto di realizzare almeno questo durante due ore, Bamako trasmette una gioia comunicativa che certo non trasmetteva il traumatizzanteIncubo di Darwin, tanto per mettere a confronto ciò che non si lascia confrontare se non superficialmente. Non che il caso del lago Victoria sia molto più drammatico della situazione economica del Mali. La questione riguarda piuttosto il metodo. Spesso, l’Incubo si azzittiva per assicurare all’immagine il monopolio dei sensi : il bambino di strada che si accascia in silenzio in un sonno drogato ; il primo piano sugli occhi umidi di una prostituta dopo aver raccontato la morte di una compagna. Vecchia idea quella secondo la quale le immagini « parlano da sé », e soprattutto che esse producano delle prove utili all’istruzione, una pretesa che l’ « affare Darwin » ha seriamente invalidato, se ce mai ne fosse stato bisogno. Avverando l’assenza di ciò che convoca, per il fatto stesso di convocarlo, la parola non produce mai delle prove, ma per lo meno questo è improvvisamente chiaro ed essa può allora consacrarsi a fabbricare della credibilità con mezzi propri : voce, argomentazione, retorica. Ad ognuno di farsi la propria opinione in funzione, non del reale, ma della qualità del verbo che lo riflette e lo pensa. E l’inquietudine del principio della deliberazione democratica, dell’esercizio della giustizia, e del processo messo in scena da Bamako. E allora che si rimettono in gioco dei limiti che credevamo fissati. Così la diatriba ampollosa del difensore del S.U.D. (William Bourdon, specializzato in questo genere di cause) non alimenta molto la simpatia che nutriamo a-priori per la sua posizione, allorché la flemma pragmatica (e un nonnulla di accondiscendente) della difesa (Roland Rappaport, Mamadou Konaté) convincerebbe quasi della buona fede delle istituzioni finanziarie. Nessun rischio comunque che si viri completamente di bordo. Il primo testimone, Aminanta Traoré, scrittrice ed ex-ministro della cultura del Mali, con la sua precisione, la sua ferma dolcezza, il dispiegamento sicuro e agile del pensiero, cementa una convinzione irreversibile. Emerge allora un’ipotesi : giusta è la causa che fa parlare giusto.
di François Bégaudeau
Tradotto da Eugenio Renzi