YEELEN
Regia di Souleymane Cisse
Nel 1987 ha partecipato al Festival Internazionale di Cannes dove ha ricevuto il Premio speciale della Giuria, sorprendendo critica e pubblico per la gravità del tema e l’aulica compostezza di linguaggio. Nello stesso anno ha vinto il Primo Premio al Bergamo Film Meeting.
Considerato uno dei grandi capolavori del cinema africano, nel corso degli anni sono molte le tesi di laurea che sono state dedicate all’analisi di questo film.
Yeelen – La luce è come tutti i film di Cissé, “una felice sintesi tra impegno politico, autenticità culturale e la necessità di una forma differente, pienamente dentro quella che è la tematica centrale del cinema africano e cioè lo scontro tra la tradizione e l’irrompere della modernità” (Ferid Boughedir, storico e critico del cinema in Il cinema dell’Africa Nera. 1963-1987, (a cura di) Sergio Tuffetti, Fabbri Editori, Milano, 1987). Yeelen è la storia di un viaggio, il viaggio di un eroe. Infatti nel corso della storia il protagonista dovrà superare una serie di incontri e di prove; ogni personaggio viene ad assurgere un ruolo preciso: chi di aiutante (la madre, lo zio), chi di antagonista (il padre). E’ un film che intreccia fiaba e mito. Così come la fiaba si sottrae alla pura dimensione realistica e allo stesso tempo possiede una forte carica simbolica che riconduce all’atmosfera del mito. E’ un film che vuole ripercorrere la tradizione e la cosmogonia di un popolo del Mali: i Barbara. La storia tratta del conflitto che ha sempre riguardato il mondo intero: il confronto tra bene e male, impersonati qui da figlio e padre, detentori del sapere e dei poteri magici. Il regista sembra voler ritornare alle origini e ai valori della civiltà africana, mostrando un’ Africa misteriosa e senza tempo. La storia infatti si svolge in una dimensione atemporale, il ritmo è rallentato e ripetitivo, tipico dei racconti dei Griot africani. Il film, appunto perché richiama la tradizione orale africana, scorre con semplicità narrativa, con lenti movimenti di macchina che ci permettono di esplorare l’ambiente, i personaggi e gli oggetti.
E’ un film pieno di metafore e di immagini simboliche, che evocano le rappresentazioni della divinità. La natura predomina ed è protagonista della storia insieme all’eroe: i quattro elementi primigeni -aria, acqua, terra e fuoco- che ritornano spesso, i suoni e la luce, simbolo per eccellenza della divinità.
Nel finale, dopo lo scontro che ha annientato padre e figlio, vediamo il figlio di Nianankoro portare religiosamente tra le dune di sabbia delle uova di struzzo, simbolo magico della vita e dell’eterna rinascita tra i Bambara. Questo bambino, frutto dell’incontro tra due etnie diverse, quella Bambara del padre e quella Peul della madre, sta a significare che la speranza del futuro è riposta proprio nell’incontro e nel superamento di tutte le barriere che dividono l’umanità.
“L’intero viaggio di Nianankoro attraverso il Mali è emblematico sia di uno spirituale viaggio iniziatico, che segna le tappe del passaggio dall’adolescenza all’età adulta e la progressiva acquisizione di esperienza e conoscenza, sia dell’incessante processo di creazione, distruzione, ricomposizione del cosmo, sia del cammino dell’umanità verso un mondo che vedrà trionfare l’incontro e la fusione delle diversità” (in Cinema del Mali, di Maria Chiara Ballerini, ed. Fedic, Roma, 1997).
Il suo primo lungometraggio è Den Muso (La ragazza) del 1975 a cui seguiranno Baara (1978), Finyé (Vento, 1982), Yeelen (La luce, 1987), Waati (Il tempo, 1995).
Regia e sceneggiatura: Abderrahmane Sissako; fotografia: Jacques Besse; suono: Dana Farzanehpour; montaggio: Nadia Ben Rachid; scenografia: Mahamadou Kouyaté; costumi: Maji-da Abdi; interpreti: Aïssa Maïga, Tiécoura Traoré, Hélène Diarra, Habib Dembélé, Djénéba Koné, Hamadoun Kassogué; gli avvocati: Hamèye Mahalmadane, Aïssata Tall Sall, William Bourdon, Roland Rappaport, Mamadou Konaté, Mamadou Savadogo, Magma Gabriel Konaté; i testimoni: Zegue Bamba, Aminata Traoré, Madou Keita, Georges Keita, Assa Badiallo Souko, Samba Diakité; i cow-boys: Danny Glover, Elia Suleiman, Dramane Bassaro [Abderrahmane Sissako], Jean-Henri Roger, Zeka Laplaine, Ferdinand Batsimba; origine: Francia/Mali, 2006; formato: 35 mm, 1.85, Dolby Srd; durata: 118’; produzione: Danis Freyd, Abderrahmane Sissako per Archipel 33, Chinguitty Film, Mali Images; distribuzione: Les Films du Losange; sito ufficiale: www.bamako-film.com
Bamako
di Abderrahmane Sissako
Per un cinema del domani
L’oreille collée au sol, j’entendis passer demain»: questa citazione da Aimé Césaire è il sigillo con il quale Abderrahmane Sissako firma il suo processo cinematografico alle istituzioni finanziarie internazionali. Con il suo terzo lungometraggio, il regista torna a Césaire e termina una vera e propria trilogia sui rapporti tra Europa e Africa, dopo La Vie sur terre (1998) e Heremakono (Aspettando la felicità, 2002), pur utilizzando una scrittura molto differente. Al diario poetico e al poema in prosa utilizzati nei due film precedenti, si contrappone qui una sorta di pamphlet politico molto diretto, e insieme molto dialettico, che mette costantemente a confronto parola e immagine, finzione e documentario, pellicola e video. Un film che rappresenta una sorta di rottura, ma insieme la summa della poetica del regista.
L’idea di partenza è geniale. Sissako mette in scena, nel cortile della casa paterna di Bamako dove è cresciuto, un vero e proprio tribunale, con tanto di avvocati professionali e testimoni convocati a rendere la propria testimonianza: tutti riuniti – dall’intellettuale al semplice contadino – per discutere dell’enorme e scandaloso squilibrio di cui è vittima l’Africa, a causa dei famigerati aggiustamenti strutturali imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, così come della privatizzazione delle risorse naturali. Contemporaneamente ai discorsi incessanti del tribunale, però, la vita quotidiana degli abitanti si svolge normalmente all’interno e all’esterno del cortile: le donne tingono le stoffe, gli uomini ascoltano il processo trasmesso per radio, una madre si prende cura della figlioletta, una coppia si sposa e un’altra si separa, i ragazzini giocano, un uomo muore.
I rappresentanti della società civile africana denunciano e mettono sotto processo il debito insensato, e insostenibile, che indebolisce il proprio continente: alle parole sussurrate dei film precedenti Sissako oppone stavolta la potenza e l’urgenza del grido. Ma il regista denuncia nello stesso tempo la complicità dei poteri africani e di una parte della cosiddetta élite del continente, come si vede dal finto western all’africana – incastonato come un piccolo gioiello all’interno del film e in cui è lui stesso uno degli attori, insieme ad altri registi tra cui Danny Glover e Elia Suleiman: per ricordarci, in maniera ironica e cinefila, che le responsabilità sono sempre condivise. «Condividere»: una parola chiave nel cinema di Sissako. Le immagini e le parole si mescolano continuamente, come la finzione e il documentario, la pellicola e il video, in questo film libero e denso. Il processo è reale e viene ripreso in video, ma diviene avvincente come un racconto; mentre le storie che il regista costruisce intorno al tribunale, filmate in 35 mm, sono solo accennate e diventano aperte e oblique, come nella vita. Le immagini che si accumulano intorno al cortile servono spesso a sottolineare le accuse lanciate nel corso del processo, come quando la macchina da presa riprende un uomo molto malato e sofferente, costretto a letto. Ma queste immagini, e le storie che portano con sé, si pongono spesso, e forse con ancora più efficacia, come un’eco poetica dei discorsi politici. Come la storia degli emigrati clandestini, costretti ad attraversare il deserto ed affrontare ogni sorta di privazione, fino alla morte. O come per la storia di Melé, cantante in un bar, e di Chaka, rimasto senza lavoro: una coppia in crisi, che sta per separarsi. Ma la vita continua, malgrado la separazione e la sofferenza, nonostante la morte e le lacrime…
«Con l’orecchio incollato a terra ho sentito passare il domani»: ogni inquadratura del film è incollata a terra, come direbbe Césaire. Abderrahmane Sissako incarna molto bene, nel suo film, l’ossimoro contenuto nella frase dello scrittore martinicano, da lui utilizzata come riferimento letterario, politico e cinematografico al contempo: in ogni immagine passa il respiro di una nuova Africa, e di un nuovo cinema, nell’attesa di un domani già passato, eppure ancora possibile, sospeso tra la sofferenza e lacrime piene di speranza. Perché il grande dramma dell’Africa non sta nella sua povertà, ma nelle sue ricchezze…
Maria Coletti
REVE DE POUSSIERE
anno 2006
durata 86’
35 mm, colore
paese: Burkina Faso/ Canada/ Francia
regia e sceneggiatura di Laurent Salgues
Cast: Makena Diop, Rasmane Ouedraogo, Fatou Tall-Salgues, Joseph B. Tapsoba, Souleymane Zouré.
Trama:
Per poter soddisfare i bisogni della sua famiglia, Mocktar, contadino nigeriano, decide di andare a lavorare in una miniera d'oro nel Burkina Faso solo per una stagione. Mocktar fa amicizia con tante persone, in particolare con Coumba, vedova che spera di poter mandare sua figlia dallo zio in Francia. Mocktar col passare del tempo si abitua alla sua nuova vita e perde i suoi punti di riferimento. Il giorno che trova una pepita decide di non tornare più a casa e dona tutto il denaro ricavato a Coumba
Rêve de Poussière di Laurent Salgues è il sogno perduto nella polvere della fatica disumana dei poveri della terra. Miseria e nobiltà di esseri umani di fronte all’unica possibilità di resistenza, di sopravvivenza. Vivere in Africa significa direttamente sopravvivere, almeno per la maggioranza dei suoi abitanti. Non ci sogno segni di modernità, ma solo oggetti che comprano il futuro. I diamanti o l’oro, come in questo caso. Due simboli dell’Africa ricca, nelle sue viscere e nella superficie, eppure svantaggiata perché sottoposta al giogo dello sfruttamento. Sogni di polvere appunto, vale a dire sogni inconsistenti perché non si traducono in concreto sviluppo per tutti, ma solo per alcuni ai quali è forse garantita una via d’uscita oppure una fuga dalla realtà più misera della quotidianità africana. Salgues filma i corpi e la terra, risucchiato dai colori forti, dalla tattilità disarmante dell’immagine “africana”. Che non è soltanto immagine “bella”, ma semplicità del mondo, coincidenza di estremi, rapimento e stupore per la natura delle cose. Così come il volto tumefatto e scheletrito di un bambino, le immagini “africane” possiedono sempre questa sorta di ricatto immediato con i sensi. Accettarle equivale a subirle, a imprimerle nella sensibilità individuale e collettiva
Mocktar, contadino nigeriano fuggito dal suo paese, arriva in Burkina Faso per lavorare in una miniera d’oro. Da qui si evolve la vicenda che intreccia storie personali di solitudine e dolore, con i problemi e le difficoltà del lavoro in miniera.
La semplicità della storia e la linearità del racconto nascondono la complessità e la profondità dell’animo dei personaggi, di cui, nei brevi dialoghi, emerge un passato mai tranquillo o sereno. La cosa più sorprendente è come un regista francese (bianco) sia riuscito a cogliere e delineare non solo le caratteristiche dei personaggi, ma anche le particolarità del luogo (la siccità, il vento, la polvere) e della situazione (l’emigrazione), mostrandoli attraverso lo sguardo di un nigeriano.
La lentezza e la staticità delle immagini rispecchiano le vite delle persone, i loro ritmi nella miniera, e sottolineano come, nonostante le condizioni di quasi schiavitù, nessuno perda la dignità e come la solidarietà di gruppo aiuti ad andare avanti. Così Mocktar, scappato dal suo paese per perdere se stesso tra la polvere delle miniere, vede emergere, sempre da quella polvere, una delicata storia, fatta solo di sguardi e poche parole, con Coumba, una ragazza che ha perso tutta la sua famiglia nel crollo di un pozzo, e sua figlia, ma anche una solida amicizia con i compagni di lavoro.
I rapporti umani dunque sono il vero centro della pellicola di Salgues, e sono l’unica cosa importante per cui valga la pena fare qualcosa. L’oro, che per un momento sembra poter dare la felicità, è destinato a sparire nel vento, causando solo dolore. Le persone invece che si incontrano lasciano una traccia che rimane dentro e aiutano a costruire qualcosa di stabile, una dimensione che da sola può far sopportare le amarezze e la difficoltà della vita, e far tornare a sognare.