Venerdì 6 aprile 21.30
Monsieur Hire
Un film di Patrice Leconte. Con Sandrine Bonnaire, Michel Blanc, André Wilms, Luc Thuillier. Giallo, durata 80 min. - Francia 1989.
Sottotitolato in italiano
Parigi. Il sarto Hire (Michel Blanc), il cui hobby principale è spiare la vicina di casa Alice (Sandrine Bonnaire), viene sospettato dell'omicidio di una giovane donna, soprattutto a causa del suo comportamento anomalo e inquietante in società. Amare sorprese in agguato.
Tratto dal romanzo Il fidanzamento del signor Hire di Georges Simenon, un dramma a sfondo giallo che è anche il remake di Panico (1946) di Julien Duvivier. È un circolo di weirdos quello che abita il film di Patrice Leconte: insieme al protagonista (Michel Blanc è perfetto nel dare forma lugubre e conturbante al Monsieur Hire, spaventoso anche quando gioca semplicemente a bowling senza mancare uno strike), con la sua passione per le cavie da laboratorio e l'avversione verso i bambini del vicinato, c'è anche l'ispettore di polizia (André Wilms) e la sua strana fissazione, nonché Alice (Sandrine Bonnaire), oggetto del desiderio dello sguardo lontano e morboso di Hire. Più che sul preconcetto e sull'emarginazione, il tratteggio di Leconte si concentra hitchcockianamente sul guardare e sull'essere guardati. Al di là della svolta narrativa del giallo, la regia gioca sulla distanza dell'immagine spiata e sull'impossibilità di catturarla per sempre: l'eccitazione non può essere soddisfatta nella realtà come nell'immaginazione (o nel cinema), poiché esse non coincidono mai. Asciutto, rigoroso, appena minato da un ritmo non certo esuberante: in assoluto, una delle opere più riuscite di Leconte. Musiche di Michael Nyman, che donano enfasi all'azione accennata e trattenuta; fotografia di Denis Lenoir.
Venerdì 13 aprile 21.30
A Londoni Ferfi
Regia di Béla Tarr. Un film con Miroslav Krobot, Tilda Swinton, Ági Szirtes, János Derzsi, Erika Bok, Gyula Pauer. Francia, Germania, Ungheria, 2007, durata 139 minuti. Sottotitolato in italiano
Il film è tratto da un romanzo di Georges Simenon. Il figlio dello scrittore ha detto in proposito: "Le vite di alcuni personaggi creati da mio padre non sono facili da trasporre in un film o in televisione. Questo vale anche per L'Homme de Londres perché la macchina da presa aspira a seguire la suspense che ha luogo nella mente del protagonista e l'impresa sembra impossibile. Bela Tarr ne ha fatto un esercizio di stile che mi ha toccato nel profondo". In effetti tutti i film del regista ungherese sono esercizi di stile. Primo fra tutti Satantango, suo capolavoro della durata fiume di 7 ore e mezzo. Ma lì, come in altre sue opere, era presente una ricerca cinematografica destinata a un ristretto pubblico di cinefili ma ricca di creatività e di senso. In questo The Man from London c'è invece la sterile applicazione di uno stile a un testo altrui. Si ammirano pertanto i lentissimi movimenti di macchina da un punto di vista estetico,
Tre aggettivi. Inquietante, lento, rigoroso. Un film speciale, dove il bianco e nero aumenta la suspence della trama che viene svelata lenta, lentissima, accompagnata da una musica triste ma melodiosa, struttura portante del film stesso. Un addetto agli scambi di una piccolissima stazione ferroviaria di smistamento vede due uomini litigare. Un valigia misteriosa finisce in mare e ciò inquieta le giornate che seguiranno. Il dubbio: cosa c'è nella valigia? Bisogna recuperarla? La Polizia verrà a sapere e arriveranno guai? Il protagonista regge tutto il peso del film, il suo viso parla per lui, potrebbe anche non esprimersi, se non fosse che il commissario dubita qualcosa e vuole delle risposte... Da vedere senza interruzioni, nonostante la lentezza delle sequenze metta a dura prova lo spettatore. Una pellicola che mostra nel rigore delle inquadrature un regista maniaco della perfezione. Una delle sequenze più affascinanti è all'inizio, con la telecamera che inquadra dal punto di vista del protagonista i movimenti delle persone che scendono dalla nave per salire sul vagone ferroviario.
Venerdì 20 aprile 21.30
La Chambre Bleue
Regia di Mathieu Amalric. Un film con Mathieu Amalric, Léa Drucker, Stéphanie Cléau, Mona Jaffart, Laurent Poitrenaux. Francia, 2014, durata 75 minuti. Sottotitolato in italiano
Julien e Esther s'incontrano in una camera d'hotel tappezzata di azzurro, per amarsi appassionatamente e scambiare qualche parola dopo l'amplesso. Un dialogo senza impegno, o almeno così crede Julien. Di fronte alle domande del commissario di polizia, però, non ne è più sicuro. Arrestato per l'omicidio del marito di Delphine, che forse non ha mai commesso, Julien scopre che ricordare può essere un'azione complessa, che le immagini affiorano prepotenti, si accavallano, si ripetono e possono farsi rapidamente materia di ossessione.
Amalric è un uomo di cinema, in senso ampio, e ha visto bene quanto cinema si nascondeva tra le pagine di questo Simenon, nella sostanza stessa del racconto. Coraggiosamente, ha cercato tutt'altro soggetto e tutt'altro stile rispetto alla precedente e riuscita esperienza di regia, Tournée, e ha fatto bene. Ma Amalric è anche un ottimo attore, uno dei migliori della sua generazione, e si è giustamente regalato un ruolo dei più intriganti e sofisticati, quelli in cui la direzione di un solo sguardo, un gesto delle mani, un moto di insofferenza, raccontano e confondono, creano da soli il mistero. Julien infatti è confuso, prima dalla donna, dal suo magnetismo, poi dalle conseguenze di quei pochi incontri, disorientanti, abnormi, definitive. Amalric recita un personaggio che recita a sua volta, indossa la nudità dell'amante, i calzoncini da spiaggia del bravo marito, l'apprensione del padre di famiglia, la paura, l'orrore muto. Al suo fianco, Lea Drucker, è una scelta poco scontata, quasi sorprendente, di sicuro apprezzabile.
Pialat, Téchiné, Chabrol, persino i Dardenne: tanti hanno immaginato la Camera Azzurra senza poi passare all'azione. La trasposizione di Amalric porta in sé qualcosa del L'inferno di Chabrol, oltre che evidentemente del La signora della porta accanto (tanto Clouzot che Truffaut erano, d'altronde, grandi estimatori di Simenon), ma predilige un registro più freddo, contenuto, geometrico.
Venerdì 27 aprile 21.30
BETTY
Regia di Claude Chabrol. Un film con Marie Trintignant, Stéphane Audran, Pierre Vernier, Jean-François Garreaud, Yves Lambrecht. Francia, 1992, durata 104 minuti. Sottotitolato in italiano
Una notte Betty Marie (Marie Trintignant), disperata e ubriaca, giunge al bar “Le Trou” (La Buca): caduta in uno stato di incoscienza, verrà accolta e accudita dall'amante del proprietario del locale, Laure (Stéphane Audran), alla quale racconterà il suo passato di tormenti.
Dopo I fantasmi del cappellaio (1982), Claude Chabrol torna ad adattare un racconto di George Simenon, Betty. Da sempre votato ai soggetti femminili controcorrente e disinibiti, il regista francese traspone con sguardo esperto e intrigante la materia letteraria attraverso il flashback, rendendolo un motore che porta indietro la narrazione per poi riportarla al presente e predirne il futuro, come un destino amaro già scritto non tanto nella dubbia moralità della protagonista, quanto nell'essere donna, nella femminilità prima negata e poi dannata. Betty – una Trintignant col volto segnato dal trucco, dal fumo e dall'alcool, ma ancora ammaliante – si confida narrando: parole e visioni si confondono, mentre l'ascoltatrice/spettatrice Laure diviene vittima inconsapevole della ribellione sociale e sessuale di Betty. Proprio come in Le cerbiatte (1968) e nei successivi titoli con Isabelle Huppert, l'affermazione dell'identità femminile viene meno, ma fa in tempo a scardinare e rompere l'ordine borghese in cui è inserita, mascherandosi con atteggiamenti maschili (il tradimento, i vizi) e arrivando all'auto-esclusione dalla società. Purtroppo, nonostante un materiale di partenza di gran valore, la costruzione narrativa risulta piuttosto ostica e spesso macchinosa; ma, anche grazie alla giusta dose di prurigine, resta un film assolutamente chabroliano, che piacerà più ai fan del regista che agli altri spettatori