Un film pieno di parole che scorrono sullo schermo e lo animano, in cui le uniche voci sono quelle di una donna, il cui volto è una voragine nera come la notte più oscura, e del figlio senza occhi e palpebre, che legge le labbra e gli oggetti con il palmo della mano. Una città controllata dal Signor Tv attraverso la Tv ed il cibo “Alimentos Tv” e che per continuare a detenere il potere ha bisogno anche di rubare le parole. Un film sulla lotta contro il silenzio e le dittature. Raccontato con leggerezza e classe.
Un mondo immaginario che non si allontana tanto dalla nostra realtà. Un film radicato nel nostro presente, ma anche nel cinema muto, ci sono tantissimi riferimenti che è un puro divertimento riscoprire: Murneau, Fritz Lang, Chaplin e Méliès; e infine ci sono le lacrime di ghiaccio che sono un chiaro omaggio alla fotografia di Man Ray.
È stato il maestro di questo tempio."
Jean-Luc Godard
Il colore del melograno (Sayat Nova)
(Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova)
Anno: 1968
Diretto da: Sergej Paradjanov
Con: Sofiko Chiaureli, Melkon Aleksanyan, Vilen Glastyan, Georgi Gegechkory.
Sinossi: Il film è la biografia di Sayat Nova, poeta armeno del XVIII secolo, ma la sua vita non è qui raccontata in maniera tradizionale, bensì attraverso dei tableaux che ne rievocano in maniera metaforica e surreale le varie fasi: infanzia e adolescenza, servizio del principe e amore proibito per la di lui figlia, convento e morte per mano dei soldati persiani di Agha Mohammed Khan.
Questo film del georgiano di origini armene Sergej Paradjanov è probabilmente un esempio di cinema di poesia.
Sayat Nova è considerato il maggiore poeta armeno (ma si dovrebbe piuttosto parlare di “ashug”, qualcosa di simile a un trovatore), e il film si ripropone di visualizzarne (più che narrarne) la vita facendo ricorso al simbolismo e alla metafora, utilizzando, cioè, dei procedimenti tipici del linguaggio poetico.
In una delle prime sequenze vediamo il poeta bambino che, affascinato dai libri, ne dispone a centinaia sui tetti di un convento, per poi su questi stessi tetti distendersi e spalancare le braccia come in una crocifissione: è già una prefigurazione metaforica del suo futuro martirio. Ancora, vedere la mano di Sayat Nova bambino “schiacciata” tra due libri mentre un prete gli raccomanda di leggere per la gente, è il correlativo oggettivo della poesia come missione e come fardello.
Quando, nella prima parte del film, ci viene mostrata l’infanzia di Sayat, essa è introdotta da una didascalia con una citazione del poeta, che recita: “Dai colori e dagli aromi di questo mondo, la mia fanciullezza trasse una lira da poeta, e me la offrì”. I riti religiosi, il lavoro dei tintori e quello dei monaci bibliotecari, il riposo nei bagni pubblici: tutto ciò è mostrato come manifestazione del mondo coi suoi colori agli occhi del poeta bambino.
Per tutto il film, Paradjanov ci mostra direttamente “i colori e gli aromi” di quel mondo fisico che dovette alimentare l’ispirazione poetica di Sayat Nova, e lo fa senza utilizzare una logica discorsiva o narrativa in senso classico, preferendo piuttosto fare poco ricorso alla parola e tentando di dare corpi e immagini visive a quelle sensazioni che la poesia può evocare.
Anche l’amore tra il poeta e la figlia del principe è reso in chiave simbolica, attraverso sguardi e gesti ripetuti lentamente come in un rituale, così come la morte del poeta (che avvenne per mano di soldati persiani), è resa attraverso una sequenza di gesti e l’immagine di Sayat disteso sul pavimento attorniato da candele su cui scendono dei galli che svolazzando si bruciano.
Ho scritto più sopra “rituale”. È questa l’impressione dominante che si ha quando si guarda questo film: quella di trovarsi di fronte a un rituale in cui ogni gesto sembra ispirato da un processo profondo, ogni azione è in sé altamente simbolica di una qualche altra realtà che la precede, e il gesto fisico è spiritualizzato.
Ciò avvicina la modalità di rappresentazione di questo film a quella del teatro No giapponese, mentre le inquadrature, frontali e a macchina da presa fissa, sembrano riportare alle illustrazioni medioevali piatte e senza prospettiva, in cui corpi e oggetti sono collocati in una dimensione altra, in uno spazio non percepibile, come sospeso e onirico.
Non stupisce che un film del genere, in cui domina una componente spirituale e un approccio surreale alle tradizioni culturali del popolo armeno, sia dispiaciuto, alla sua uscita, ai burocrati e ai potenti di quella che allora (1968) si chiamava URSS. Il governo sovietico (che obbligò tra l’altro il regista a modificare il titolo originario “Sayat Nova” in “Il colore del melograno”) esercitò infatti notevoli pressioni sull’artista Paradjanov, accusandolo di aver deviato enormemente dai canoni del realismo socialista, per poi condannare anche l’uomo a cinque anni in un campo di riabilitazione con l’accusa di omosessualità e furto. Contro la condanna si mossero alcuni artisti e colleghi registi, e Paradjanov fu liberato, ma gli fu negato, per alcuni anni, di dirigere altri film.
Attualmente, il film, amatissimo per la sua forza visionaria da molti cineasti tra cui Fellini e Tarkovskij, è difficilmente reperibile, fatte salve le edizioni in DVD della Ruscico e della Kino.
Forse che agli artisti che in vita hanno scontato l’oppressione della censura e le pressioni dei burocrati, tocchi anche affrontare, dopo morti, la beffa di un mercato che si dice libero e invece ha vincoli particolarmente restrittivi?
Allora quest’opera, come altri invisibili, sconta lo stesso destino del poeta bambino, consapevole che la poesia è bellissima missione, ma anche fardello e martirio, e conferma che i veri poeti, anche quelli dello schermo, sono quelli scomodi anche dopo tanto tempo.
Scritto e diretto da Michelange Quay
Cast: Sylvie Testud, Catherine Samie, Hans Dacosta Saint-Val, Jean Noël Pierre Francia/Haiti, 2007105 min.
Interpretato da un cast chimicamente composito – Silvie Testud, giovane musa del nuovo cinema francese di frontiera, insieme a una veterana della Comedie Française come Catherine Samie, due folgoranti interpreti non professionisti (Hans Dacosta St Val e Jean-Noel Pierre) e dieci ragazzini haitiani, ex-bambini di strada e ora performer inquadrati dalla Fondazione Kroma – Mange, ceci est mon corps non delude quanti auspicavano un'opera prima in grado di confermare il vigore plastico e surreale di Quay, ma non mancherà di sconcertare lo spettatore-tipo del cinema del sud, africano o delle diaspore, che pretenda di verificarne la spendibilità ai fini di un discorso didascalico sui rapporti nord-sud in epoca di crisi della globalizzazione.
Atmosfera kafkiana, luogo e personaggi calati in una dimensione di isolamento e prigionia, presenza di uno sfuggente universo simbolico, metaforica riflessione sull’assenza d’amore e sulla società del potere, basata su rapporti servo-padrone, su sistemi di controllo, su protocolli ripetuti fino all’inverosimile…
Straordinarie le prove degli attori e ipnotiche alcune sequenze di movimento.
Il film è stato accolto senza entusiasmi alla sua uscita ma è diventato nel corso degli anni un oggetto di culto.
Un’esperienza sensoriale cui abbandonarsi.